Iª parte:
Come
gli Agnelli si sono impadroniti della FIAT, ovvero: una truffa da
manuale.
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Sen.Giovanni Agnelli |
La
FIAT viene identificata da
tutti con la famiglia Agnelli. Ma non è nata per loro iniziativa, e
il modo con cui se ne sono impossessati fornisce un esempio classico
del funzionamento del capitalismo. La
FIAT era nata l’11 luglio 1899
per iniziativa di un gruppo di imprenditori affascinati dalle
prospettive dell’automobile: il conte Roberto Biscaretti di Ruffia,
che già importava automobili da corsa dalla Germania, il conte
Emanuele Cacherano di Bricherasio, l’avvocato Carlo Racca, Michele
Lanza, un modesto produttore di cande (non per automobili, ma di
cera), e l’avvocato Cesare Goria-Gatti, il redditiere Lodovico
Scarfiotti, il banchiere e setaiolo Michele Ceriana-Mayneri, un
agente di cambio, Luigi Damevino, e un terzo nobile, il marchese
Alfonso Ferrero de Gubernatis di Ventimiglia. Giovanni
Agnelli entra successivamente come piccolo azionista.
Nell’assemblea dei soci, il consiglio di amministrazione era stato
formato solo dai “padri fondatori” che abbiamo ricordato.
Presidente
era stato eletto lo Scarfiotti, vicepresidente il Bricherasio, che
tuttavia era irritato perché avrebbe desiderato essere lui il
presidente. Elette le cariche minori, il conte Biscaretti si accorse
che mancava un segretario,
un incarico puramente formale che per consuetudine si assegnava al
più giovane dei presenti o a un semplice impiegato. In fretta e
furia venne votato il nome di Giovanni Agnelli,
a cui nessuno dava la minima importanza, soprattutto perché non era
né nobile, né appartenente alle grandi famiglie borghesi come tutti
gli altri.
Nelle
prime riunioni del Consiglio di amministrazione Giovanni Agnelli
tace; ma poi comincia ad allargare la propria influenza, attaccando
il direttore tecnico, Aristide Faccioli, un progettatore fin troppo
geniale, che finirà per doversi dimettere per le continue ingerenze
che limitano la sua autonomia. Giocando in seguito sulle gelosie e
rivalità tra i soci fondatori, egli si fa proporre come “membro
delegato del consiglio” e poi amministratore delegato, con ampi
poteri. Ma ancora senza un pacchetto azionario consistente.
Solo
nel 1906 riesce a fare il gran colpo.
La FIAT ha ormai 1.500 operai, produce nove modelli diversi. Per
raggiungere le 600 vetture annue, si comincia a lavorare anche di
notte. Gli utili, dopo i primi due anni (che risultavano in perdita),
passano da 152.000 lire del 1902 a 394.000 nel 1904 e a 2,5 milioni
nell’anno successivo. In quell’anno il Re Vittorio Emanuele, che
fin da quando era principe ereditario si era espresso aspramente
contro quelle macchine “pericolose ed abominevoli”, venne salvato
dal principe Colonna da un fastidioso guasto di un treno, alle porte
di Roma, con una FIAT: aveva così provato, per la prima volta,
un’autovettura, e ne era rimasto così soddisfatto da concedere
allo stabilimento il titolo di “Fornitore della Real Casa”.
Intanto,
con la connivenza dell’unico suo complice nel Consiglio di
amministrazione, Luigi Damevino, Agnelli
fa passare la proposta di ridurre ad un ottavo il valore nominale
delle azioni, con il
risultato di invogliare un gran numero di acquirenti; il valore
reale, anziché ridursi, raddoppio: e una parte notevole finì nelle
mani dei due compari.
Successivamente,
con un gioco complesso in cui entrano due istituti bancari – tra
cui la Banca Commerciale – vengono dapprima annunciati dividendi
favolosi, poi pagati indebitandosi con le banche (quindi senza alcun
fondamento reale), mentre un
cambiamento di ragione sociale e l’emissione di nuove azioni porta
ad un effettivo “esproprio” di cinque dei vecchi fondatori, i
quali rimangono con sole 2.000 azioni ciascuno. Agnelli, Damevino e
Scarfiotti (che si è unito ai due compari), sono invece entrati in
proprietà di 37.000 azioni.
Tra le attività della società sono comparse (e non spariranno mai)
forniture militari di vario genere, tra cui 8 sottomarini
commissionati dal governo italiano (ma
commissionati anche dal governo tedesco, e persino quando ormai la
prima guerra mondiale era già iniziata e vedeva Italia e Germania
schierate su opposti fronti, dando prova del famoso “patriottismo”
degli industriali, i quali le parole “Patria” e “Stato” le
ricordano solo quando devono battere a cassa per mungere denaro della
collettività! n.d.r.).
Il 7 luglio 1907, il primo crollo della borsa in Italia trascina
nella polvere per qualche tempo i titoli FIAT; ma il terremoto serve
ad un’uteriore concentrazione nelle mani dei tre avventurieri.
Il
giornale giolittiano La
Stampa, che
diventerà solo successivamente di proprietà degli Agnelli (anche se
si farebbe meglio a chiamarli “Lupi”
o meglio ancora “avvoltoi”!
n.d.r.),
comincia a denunciare la
truffa ai danni della vecchia maggioranza del Consiglio di
Amministrazione; il 23 giugno 1908, la Questura denuncia Giovanni
Agnelli per “illecita coalizione, aggiotaggio in borsa e
alterazione di bilanci sociali”
(un Berlusconi ante litteram! n.d.r.).
Sono coinvolti anche il solito Damevino e il presidente Scarfiotti.
I
capi d’accusa risultano particolarmente gravi e circostanziati:
la procura assicurava “non esservi ragionevole dubbio” che la
crisi finanziaria della FIAT dovesse “attribuirsi ai loschi
intrighi dei suoi amministratori”. I
tre si sarebebro arricchiti ed avrebbero assunto il controllo della
società, in danno degli altri azionisti, attraverso queste manovre:
- spargendo “false notizie di colossali commesse ricevute dall’America, poi rivelatesi inesistenti”;
- rassicurando gli azionisti sulle condizioni della società, pagando dividendi esagerati grazie ad un mutuo passivo di parecchi milioni;
- accreditando con “bilanci fittizi” una propsperità della FIAT che, in quel momento, non esisteva.
Lo
scandalo fu enorme, ma non vi fu arresto per nessuno.
Si dimise, intanto, l’intero vertice, mentre proprio Agnelli veniva
incaricato temporaneamente dell’ordinaria amministrazione per la
continuità dell’azienda. In suo favore interveniva il ministro di
Grazia e Giustizia, Vittorio Emanuele Orlando, il quale esercitava
una spudorata pressione sulla procura, ricordando che l’indagine
processuale avrebbe potuto “influire in modo sinistro sulla sorte
di industrie locali, che sono pure notevoli elementi dell’industria
nazionale”. Un imponente collegio difensivo faceva protrarre
l’inchiesta per anni, finchè l’opinione pubblica, distratta
dalla imminenza della guerra ed esaltata dalla vittoria in Libia
(attribuita da tutta la stampa agli autocarri 15 bis forniti dalla
FIAT), non si accorgeva neppure dell’assoluzione con formula piena
di Giovanni Agnelli e dei suoi compari. L’unico a pagare era stato
il presidente Scarfiotti.
Alla
fine della guerra, nel
corso della quale la FIAT ha prodotto automezzi ed armi, navi da
trasporto e da guerra, ha inviato i suoi emissaria Mosca e a Vienna
(uno di essi, Adolf Egger, era per ragioni inesplicabili presente nel
corteo dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria a Sarajevo,
al momento dell’attentato) e ha costituito varie società - con
sedi in diversi paesi – per l’importazione di carbone, ecc.,
Agnelli riesce ad eliminare
i concorrenti e a diventare, da solo, proprietario del 55% del
capitale azionario.
- IIª parte:
La
FIAT in camicia nera.
Alla
vigilia della “marcia su Roma”,
i giornali controllati da Agnelli (che sono ormai molti) si schierano
apertamente per Mussolini. E
la FIAT, per vent’anni, “indosserà la camicia nera”. Se la
toglierà solo il 25 luglio del 1943. Ma
la sua ascesa, da modesta impresa locale a grande gruppo mondiale, è
stata tutta determinata dal rapporto con il fascismo e le sue imprese
di guerra. Seguimone le tappe.
Il
28 ottobre, Agnelli è tra i primi ad inviare un telegramma di
felicitazioni a Mussolini
e, presto, gli chiede ingenuamente di smobilitare le squadracce e di
“mettere un freno ai ras di provincia” (cioè al “quadrumviro”
De Vecchi, rozzo e ignorante), temendo siano controproducenti. Subito
dopo, tuttavia, riconosce ai sindacati fascisti, che non avrebbero i
requisiti di legge, il diritto di partecipare alle elezioni della
commissione interna. A chi dei suoi amici liberali lo critica per
questo gesto, Agnelli risponde che i sindacati fascisti avevano il
merito di evitare la contrapposizione “muro contro muro” e di
dissociarsi dalla Fiom, che era rimasta legata ai “vecchi metodi di
lotta”, cioè allo sciopero. E siccome De Vecchi, viceversa,
considera suoi nemici nel partito i sindacati fascisti, che puntano
sulla demagogia e non solo sui manganelli, Agnelli lo scavalca,
invitando Mussolini a Torino per l’inaugurazione dello stabilimento
del Lingotto. Mussolini accetta, pur evitando lo scontro diretto con
De Vecchi (che, anche in ambiente fascista, era soprannominato, per
l’aspetto fisico e la scarsa intelligenza, “un cazzo con i
baffi”, ma continuava a controllare le squadracce piemontesi).
Poiché
Cesare Maria De Vecchi continuava a pregiudicare i rapporti con la
FIAT, che definiva la “plutocrazia industriale”, Mussolini, per
allontanarlo da Torino, lo chiama a Roma, con la promessa di un alto
incarico e l’offerta del titolo nobiliare di conte di Val Cismon;
lo spedirà poi come governatore in Somalia, dove De Vecchi farà
stragi, ma si arricchirà rapidamente.
Ad
Agnelli, invece, Mussolini fa arrivare prima della visita al Lingotto
prevista per l’autunno, la nomina a senatore del regno, che viene
fatta da re “su proposta del capo del governo”. E prepara la sua
“marcia su Torino”, come la chiamerà Piero Gobetti. Per
prevenire contestazioni, anche Giovanni Agnelli prende le sue misure:
convoca le commissioni interne per informarle, e ai mugugni risponde
che “ci sono tre modi per riceverlo: applaudire, tacere o sabotare.
Vi lascio scegliere tra i primi due. Il terzo modo lo stroncherò con
ogni mezzo”. La maggior parte degli invitati – selezionatissimi –
al ricevimento, sceglieranno il secondo modo e gli operai rimasti al
lavoro saranno dissuasi dal manifestarsi, vista la massiccia presenza
di squadristi e di milizia.
Agnelli
si compiaceva allora di far circolare la voce che fosse fascista a
Roma e antifascista a Torino (bella cosa!), ma chiudeva il suo
discorso con un “Viva Mussolini!”. Comincia a dire che è
“mussoliniano”, ma non fascista… Intanto, ottiene dal “capo”,
con cui stabilisce un rapporto diretto, oltre all’abolizione della
nominatività dei titoli azionari, anche l’accantonamento dei
provvedimenti di confisca dei sovraprofitti di guerra per gli
industriali (che erano stati parte del programma demagogico del primo
fascismo), la riduzione delle imposte di ricchezza mobile sulle
società anonime e i loro amministratori e, soprattutto, lo
scioglimento prima delle commissioni interne e poi dei sindacati, per
dare vita al nuovo ordinamento corporativo.
Inoltre,
con la complicità di ministri come Aldo Finzi (ebreo e fascista) e
del quadrumviro Italo Balbo, il neosenatore Agnelli si impossessa di
altri quotidiani sottratti all’opposizione, tra cui il Resto
del Carlino. Al momento
della crisi per l’assassinio di Giacomo Matteotti, il cui corpo
risultò essere stato trasportato con un’auto di quel quotidiano
bolognese, Agnelli tace a lungo, con grande stupore dei suoi vecchia
mici liberali. Quando si arriverà al voto, Agnelli lo darà a
Mussolini, che non dimenticherà.
- IIIª parte:
Agnelli
ha, nel frattempo, acquistato la Juventus,
per assicurarsi le simpatie popolari con la vecchia ricetta degli
imperatori romani: panem et
circenses. Introdurrà per
primo le paghe favolose ai calciatori e inventerà gli “oriundi”,
per aggirare le disposizione governative contro l’utilizzazione di
giocatori stranieri. Ma soprattutto, consolida la struttura familiare
di controllo dell’impero finanziario, che cresce a dismisura.
Nel
1929, ha già consistenti interessi nei Balcanie in Estremo Oriente,
ma si trova subito in difficoltà. Riesce a resistere in Italia, ma
perde colpi all’estero. La FORD che pure retribuisce i suoi operai
quattro volte di più di quelli FIAT, riesce a vendere le sue vetture
ad un prezzo quattro volte inferiore. La Francia, che era la migliore
cliente della FIAT, alza i dazi doganali di entrata dal 25% al 60%.
Il mercato esterno è praticamente perduto; il fatturato, tra il 1929
e il 1931, si riduce della metà.
Ma
c’è un pericolo maggiore: la
FORD tenta di sfondare sul mercato italiano,
dopo essersi assicurata la collaborazione di una potente lobby
di industriali e finanzieri milanesi e di un gruppo di gerarchi, tra
cui Emilio De Bono (vecchio amico del De Vecchi) e Costanzo Ciano, il
cui figlio Galeazzo aveva sposato Edda Mussolini e al quale era stato
promesso che uno dei due stabilimenti Ford in Italia sarebbe stato
costruito a Livorno, sua città natale. Partecipavano all’operazione
anche il ministro Bottai e il presidente dell’Automobil Club Silvio
Crespi. Questa lobby
era tutt’altro che disinteressata, ma avanzava un argomento
ragionevole: la concorrenza americana sarebbe stata utile,
stimolandola, alla stessa FIAT, le cui difficoltà dipendevano da una
generale carenza tecnica, da un’insufficiente programmazione e
dalla mancanza di modelli utilitari. Il governo, poi, doveva temere
ritorsioni internazionali a una troppo aperta politica
protezionistica in favore della casa torinese.
Agnelli,
affiancato ormai dal fedellissimo “professore” Vittorio Valletta,
punta subito sullo spirito nazionalista di Mussolini,
insofferente all’invadenza di prodotti stranieri, vista come una
mortificazione dell’orgoglio nazionale. E Mussolini avoca a sé
ogni decisione in materia, bloccando i piani della Ford, “che non
può pretendere di rifarsi in Europa delle perdite che subisce a casa
sua”. Anzi chiude d’autorità – per questioni “d’ordine
nazionale” – gli impianti che il gruppo americano aveva già nel
porto franco di Trieste. Gli azionisti FIAT salutano con gioia questa
decisione, che blocca anche un altro tentativo della General Motors
di installarsi in Italia, “considerandola alla stregua di una
colonia”; e, il 6 marzo 1930, votano all’unanimità la proposta
di ricordare la decisione del “duce” con un’epigrafe a
caratteri d’oro, collocata nell’atrio principale del Lingotto.
I
gerarchi fascisti, ormai legati agli interessi stranieri, non
demordono: Costanzo Ciano scrive a Mussolini, segnalando che la FIAT,
nonostante gli interventi in suo favore, aveva ridotto ulteriormente
l’orario di lavoro (ovviamente con riduzione del salario) e aveva
sospeso la produzione in vari reparti del lingotto. Invano. Quando la
FIAT si rivolge a Mussolini avvertendo che, in mancanza di nuovi e
ancora più energici provvedimenti contro la concorrenza estera,
avrebbe dovuto adottare altre “gravi e dolorose decisioni” sul
piano dell’occupazione, ottiene subito che i dazi doganali sulle
autovetture estere vengono aumentati del 130% ed estesi anche alle
parti staccate. Di fatto teme che la Ford ritorni all’attacco,
attraverso un accordo di joint
venture firmato con
l’Isotta Fraschini per la produzione di un’autovettura utilitaria
con maestranze italiane. La Ford ha sempre dietro di se Ciano, che
scrive al “Duce” che anche “gli operai che lavorano nelle
fabbriche milanesi o in altre parti d’Italia hanno diritto alla
medesima protezione di quelli che lavorano in Fiat”. Inolte,
segnala che nel capitale azionario sarebbero stati maggioritari due
italiani: il conte Gian Riccardo Cella e Ludovico Mazzotti
Biancinelli, ex dirigente dell’Ilva.
Ma
Agnelli pone un tassativo “o con noi o contro di noi”, mentre
qualcuno informa Mussolini che “dietro gli industriali milanesi si
nascondono alcuni gerarchi del partito”. Dopo una vigorosa
strigliata ai gerarchi lobbysti, il “duce” blocca la costituzione
della joint venture,
diffida attraverso Bottai la casa di Detroit dal continuare i suoi
tentativi e, soprattutto, emana due decreti: il primo, riserva al
governo di deciderequali industrie sono fondamentali “per la
fabbricazione di prodotti essenziali per la difesa della nazione”;
il secondo, riconosce tra questi l’industria dei trasporti
terrestri. La FIAT ha vinto.
E
la FIAT ricambia, sfornando finalmente, con il nome di “Balilla”,
l’utilitaria voluta dal “duce” e i treni popolari, che vengono
battezzati “littorine” in onore del fascio littorio. Nel 1932,
una nuova visita di Mussolini al Lingotto si rivela ben diversa dalla
prima. Gli operai hanno dovuto sospendere il lavoro in tutti gli
stabilimenti e recarsi inquadrati e preceduti da fanfare alla
manifestazione. Il figlio di Giovanni Agnelli (e padre di Gianni) sta
sul palco in divisa fascista. Mussolini concede l’avallo a un
grosso prestito per forniture militari alla Turchia, alla Grrecia e
all’Argentina; poi fa sapere, però, che è ormai opportuno che il
senatore prenda la tessera del partito. E questi lo farà, forse con
scarso entusiasmo, ma anche senza esitazione.
Elena
Croce, la figlia del filosofo, osserverà a questo proposito:
Agnelli
affettava con umiltà un’ssoluta innocenza nelle cose della cultura
e della politica, ma non ci voleva molto ad accorgersi che la prima
era fatta di disprezzo, e la seconda di calcolo e paura.
Agnelli
e Valletta hanno ormai tutte le porte aperte a Roma: riescono a
bloccare un progetto di monopolio delle ferrovie statali nel
trasporto pubblico e un altro di una speciale tassazione degli
automezzi pesanti, che viene fatto cadere in concomitanza con
l’uscita di un nuovo modello di autocarro. L’Alfa Romeo viene
inspiegabilmente sostituita dalla Fiat in alcune grosse forniture ai
cantieri navali di Monfalcone. “Nella mutata economia
politico-sociale del paese guidata da S.E. il Capo del Governo –
dichiara Agnelli – anche l’industria trova una nuova comprensione
dei suoi fini nazionali e sociali”.
E
intanto ottiene anche: l’esenzione della Balilla dalle tasse di
circolazione; la revoca delle misure restrittive dei servizi
automobilistici rispetto alle ferrovie; l’estensione della speciale
protezione doganale prevista per le auto a tutte le costruzioni
meccaniche sussidiarie. Sempre nel supremo interesse nazionale…
Nel
1935, tuttavia, la Fiat corre un brutto rischio: mentre estende
sempre più il proprio impero, conosce alcune difficoltà produttive,
che spingono il ministro della Guerra a ricorrere all’odiata rivale
Ford per l’acquisto di 3.000 autocarri, necessari all’invasione
dell’Etiopia. Solo con qualche ritardo la Fiat riuscirà, poi, a
fornirne altri 5.000, ottenendo in cambio un’attenzione
privilegiata nella fornitura di materie prime e lauti risarcimenti
per la perdita di mercati esteri a seguito delle sanzioni decise
contro l’Italia, dopo l’impresa di Etiopia, e della conseguente
politica autarchica (in nome della quale aveva, peraltro ottenuto
vaste concessioni di zone alpine per la ricerca di minerali
“nazionali”). Sempre con il contributo statale, la Fiat
costruisce in Veneto stabilimenti per la produzione di vetro in
lastre, cementifici, fabbriche per la produzione di materieplastiche
derivate dal catrame, e acquista perfino risaie, nel vercellese e in
Emilia-Romagna.
Alla
vigilia della guerra, gli operai sono ormai 50.000, il fatturato è
passato dai 750 milioni del 1935 agli oltre 2 miliardi del 1937.
- IVª parte:
Doppio
e triplo gioco durante la guerra.
Alla
vigilia della guerra, Mussolini fa la sua terza visita alla FIAT, il
15 maggio 1939. Lo stato maggiore aziendale è schierato in camicia
nera, gli operai sono stati condotti a forza nel piazzale dello
stabilimento non ancora completato di Mirafiori (inizialmente visto
con diffidenza dal governo fascista, che temeva le concentrazioni
operaie troppo numerose).
Mussolini
arriva su un’Alfa Romeo, allora concorrente della FIAT, e questo
non piace ai dirigenti né agli operai, che hanno però altre ragioni
di dissenso. I 50.000 operai non rispondono con ovazioni alle
consuete tirate oratorie del “duce”, il quale si irrita sempre
più. Chiede se ricordano un suo precedente discorso, ma la piazza
rimane muta, e Mussolini sbotta, paonazzo d’ira: “Se non lo avete
letto, andate a leggerlo, se non lo ricordate, andate a rileggerlo”
e volta le spalle, sibilando “questi piemontesi, tutti dei porci”.
Non
c’entrava il Piemonte, evidentemente, ma la rinascita di
un’opposizione di classe. Lo aveva ammesso poco tempo prima un
rapporto riservato del Prefetto di Torino, che affermava:
la
grande maggioranza delle maestranze metallurgiche della Fiat,
nonostante la sua appartenenza formale al partito fascista, è
rimasta quello che era, socialista e comunista per convinzione.
E
il federale fascista Gazzotti aveva segnalato anch’esso con
amarezza:
questa
Fiat resta, nella sua manodopera, socialista e comunista, Non c’è
quella partecipazione che ci si potrebbe attendere da una folla di
miserabili disoccupati che da tutte le regioni d’Italia sale a
Torino per fare della Fiat la più alta concentrazione operaia di
tutto il Paese.
Agnelli,
intanto, si preparava alla guerra che, però, sperava lasciasse fuori
l’Italia: infatti, fino ad un giorno prima delle due aggressioni,
aveva continuato a fornire autocarri alla Francia e alla Grecia… E
durante la guerra mantiene buoni rapporti con l’occupante tedesco,
un po’ meno buoni con la Repubblica sociale italiana, la
Repubblichina di Salò, che
lo vorrebbe come ministro e non conta nulla. Mantiene buoni rapporti
attraverso vari dirigenti con gli antifascisti moderati, ma anche con
i comunisti, che ai primi di marzo del 1943 hanno scatenato il grande
sciopero generale contro la guerra. Difende i suoi operai dalla
deportazione in Germania (che colpisce comunque una parte dei
“facinorosi”), ma convincendo i nazisti che sono essenziali per
la produzione e che, spostando i macchinari e gli uomini, si
perderebbero mesi preziosi. Per fermare gli scioperi, di cui conosce
bene il movente politico ma anche il legame con le rivendicazioni
economiche, concede forti aumenti, indennità, premi. I nazisti
capiscono, i fascisti protestano, ma vengono tacitati con una visita
di Valletta a Salò, dove questi dichiara di essere riconoscente per
la legge sulla socializzazione e di essere pronto ad applicarla. Il 6
marzo 1945 si svolgono le elezioni per approvare o respingere il
progetto: parteciperanno solo alcuni fascistoni, pari allo 0,6% dei
lavoratori. Mussolini è furioso e minaccia ritorsioni, ma non fa in
tempo, perché deve cominciare a preparare lo sgombero del Garda, per
arroccarsi nel “ridotto della Valtellina”, da cui far ripartire
la controffensiva. In realtà, si prepara la fuga, che finirà a
Dongo.
I
comunisti salvano le fabbriche, che sono state minate dai nazisti, e
se ne impossessano. Le restituiranno, poi, in nome dell’unità
nazionale, ad Agnelli, Valletta sarà assolto dall’accusa di
collaborazionismo, adducendo come meriti i contatti avuti con
esponenti alleati, nonché la sua capacità di ottenere dagli
ufficiali tedeschi la salvezza degli stabilimenti. In realtà, ad
ogni minaccia di smantellarli, si rispondeva garantendo l’aumento
della produzione, facendosela, peraltro, pagare subito, probabilmente
con i beni rastrellati in tutta l’Europa. Il giovani Gianni
Agnelli, che si era fatto mandare in Russia (dove stava comodamente
installato in una casa ben riscaldata e fornita di ogni ben di Dio,
assai lontano dal fronte) e poi in Africa ugualmente senza l’ombra
di un pericolo), si presenterà con un curriculum di “partigiano”.
In realtà, aveva tentato di raggiungere una sua tenuta vicino ad
Arezzo su un’auto guidata da un maresciallo tedesco a cui era stata
offerta una macchina per i suoi servigi, ma aveva avuto un’incidente
d’auto ed era stato ricoverato a Firenze, dove aspettò gli alleati
presso i quali si arruolò come ufficiale di collegamento.
Gli
unici a pagare sono stati gli operai, che avevano salvato le
fabbriche. Agnelli e
Valletta aspettarono poco tempo, per avere l’appoggio dei governi
centristi a un nuovo rilancio industriale e per trovare il momento
buono per licenziare tutti i più combattivi. Per qualche tempo, si
tratterà solo di spostamenti nei “reparti confino”; ma, una
volta reciso il legame tra le avanguardie e la massa, disorientata
per la perdita rapida di tutte le conquiste fatte, sarà la cacciata
definitiva dalla Fiat. Ma questa è un’altra storia…
[Tratto
da: Il
«capitalismo reale»,
di Antonio Moscato, Teti Editore, Milano 1999]
Per un
approfondimento, si veda: Angiolo Silvio Ori, Storia
di una dinastia. Gli Agnelli e la Fiat,
Editori Riuniti, Roma 1996, da cui sono tratti molti dati riportati.
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